Monumento nazionale dal 1928, il Castello di Rocca Sinibalda è lo straordinario esempio, unico in Europa, di un edificio contemporaneamente astratto e animalesco, cubista e zoomorfo: “creazione geometrica astratta, costruzione che pare tagliata con la spada” (Zander, 1955), ma anche rappresentazione architettonica di un’aquila dalle ali ripiegate per gli uni, di uno scorpione sinistro per altri, più visionari.

La contraddizione e il paradosso sono l’identità profonda del castello. Intensamente medievale, eppure grande architettura rinascimentale. Gotico eppure razionale. Cupo eppure luminoso. Poderoso strumento da guerra, eppure palazzo signorile principesco. Sobrio, severo, a tratti aspro, eppure decorato da affreschi manieristi densi di cultura classica e da grottesche cariche di capriccio e di immaginazione libera.

Castello delle metamorfosi, dove le forme, i volumi, gli spazi interni ed esterni, le immagini e le luci, le singolari collezioni, i percorsi interni diversi e insoliti costringono a non essere semplici, e a desiderare il cambiamento.

Storia

Poche notizie certe, vuoti di secoli, autori dubbi, proprietà confuse e che spesso non coincidono col possesso reale, nomi di famiglie che si intrecciano e si avvicendano mentre castello e marchesato rimangono di fatto spesso nelle stesse mani. Nel disordine apparente, continuità relativa che prosegue da un secolo all’altro, fino ad oggi.

Il castello nasce come rocca militare intorno al X secolo, per alcuni il IX, per altri l’XI. Deve il suo nome a Sinibaldo, conte e rettore della Sabina tra il 1058 e il 1065. Si sa poco delle vicende del castello nei secoli successivi. Appartenne ai monaci benedettini di Farfa, venne disperso con la dilapidazione dei beni dell’Abbazia, tra il XIII e il XV secolo entrò nei feudi di due famiglie poi scomparse – i Buzzi e i Brancaleone di Romancia -, con qualche traccia di tutto ciò negli Statuti di Tivoli e nell’Archivio della Cattedrale di Rieti. In quei secoli si stabilizza l’impianto medievale del castello come fortezza.

Solo nel XVI secolo arrivano notizie appena più precise. I conti Mareri risultano in qualche modo proprietari del Castello. Subiscono presto l’aggressività dei Medici, entrati in conflitto con i Mareri che ostacolavano la loro espansione in Abruzzo e in particolare nella zona de L’Aquila. Leone X de’ Medici aveva già nel 1517 nominato cardinale Alessandro Cesarini. Approfittando di una lite tra due Mareri, Clemente VII de’ Medici assegna metà del castello al cardinale, che poi completerà l’acquisizione in data incerta, ma in ogni caso entro il 1539. Documenti scoperti di recente sembrano raccontare una vicenda molto più complicata, ma non cambia l’esito: il passaggio del Castello ai Cesarini. Corse voce all’epoca che in realtà al Cesarini e alla sua famiglia fosse stato concesso dal Medici il solo possesso del castello, con l’obbligo di provvedere al suo mantenimento e al rafforzamento del suo ruolo strategico sul confine tra lo Stato Pontificio e il Reame di Napoli.

Alessandro Cesarini segna la svolta.Il recente Sacco di Roma lo spinge ad una grande attenzione verso questo feudo e edificio non troppo lontani dalla città, ma protetti dalla distanza, dall’asprezza dei luoghi, dalla facilità della loro difesa, dalla funzione di pivot strategico tra Roma e Rieti e sull’intero quadrante militare tra il Lazio e L’Aquila.

Al tempo stesso il Cardinale non vuole rinunciare ai piaceri e modelli di bellezza della vita signorile. Ecco allora l’idea di trasformare una Rocca medievale e guerriera in un ibrido tra possente struttura fortificata e palazzo rinascimentale.

Cesarini si rivolge per questo a Baldassarre Peruzzi, presente a Roma e nominato Architetto della Fabbrica di San Pietro nel 1530. La richiesta al Peruzzi venne formulata probabilmente in occasione delle scenografie delle Bacchidi di Plauto, commissionate dalla famiglia Cesarini per le nozze tra Giuliano Cesarini e Giulia Colonna  (28 maggio 1531).

La scelta del Peruzzi era forse la più adatta a quadrare il cerchio delle esigenze contraddittorie del Cardinale. Architetto militare tra i più grandi dell’intero Rinascimento, Peruzzi era però anche architetto civile di straordinaria finezza, come già il Palazzo Massimo alle Colonne basterebbe da solo a dimostrare. Peruzzi aveva anche teorizzato di fatto, in alcuni progetti, il superamento della distinzione rigorosa tra villa e fortezza cara a un architetto militare come Francesco di Giorgio, ai Sangallo e a Leonardo. Era possibile unire funzione militare e piacevolezza del vivere nello stesso edificio, e portando al vertice sia la prima che la seconda.

Ecco allora il progetto per il castello di Rocca Sinibalda, sintetizzato in tre disegni conservati agli Uffizi di Firenze: uno sperone anteriore e una ‘coda’ consacrati alla difesa dai due punti in cui il castello era aggredibile; e un grande corpo centrale – il ‘palazzo’ – a picco su un costone di roccia. Configurazione  geniale, che sposa e prosegue verso l’alto in modo coerente il movimento del terreno. Configurazione insolita, che fu letta subito dai contemporanei come zoomorfa: un’aquila con le ali distese, omaggio alla funzione guerriera e all’aquila asburgica che Carlo V aveva inquartato nello stemma dei Cesarini per il loro fedele sostegno alla causa imperiale; ma anche, sinistro ma vicino ad una ampia iconografia dell’Antirinascimento, uno scorpione.

I lavori di rifacimento del vecchio impianto medievale iniziarono nel 1532, e Peruzzi morì nel 1536. In povertà, affannosamente all’inseguimento di nuovi incarichi che lo portavano qua e là tra Lazio, Toscana e Umbria, Peruzzi si occupò sicuramente assai poco della realizzazione del suo progetto. Non si sa molto di chi lo portò a compimento – probabilmente allievi di Andrea di Sangallo e suoi. Il confronto tra i disegni e l’edificio finale mostra i molti adattamenti cui dovettero ricorrere in corso d’opera.

Alessandro Cesarini e il cugino Giuliano iniziarono poi il lavoro di decorazione delle pareti, ispirato dalle Metamorfosi di Ovidio con innesti importanti di narrazioni familiari dei Cesarini.  Vi parteciparono con stili molto diversi Girolamo Muziano, gli atelier del Manierismo romano, e altri ancora da identificare, con cicli narrativi di grande potenza e visionarietà. Molti affreschi del resto attendono ancora un loro costosissimo recupero.

Nei decenni successivi al suo rifacimento, il Castello subisce le alterne vicende dei Cesarini nella guerra con i Carafa, poi – nei secoli dal XVII al XIX – assedi, l’esplosione della santabarbara (1710), incendi, abbandoni, decadenza, e un avvicendarsi di altre famiglie: i Mattei, i Lante della Rovere, i Muti-Bussi, i Lepri. Carosello di nomi che dura fino ad epoca recentissima, in un intreccio inestricabile di diritti giuridici e di possesso a tempo spesso spacciato per proprietà, dove i primi sono molto più stabili di quanto non sembrino sulla carta,  e prevale un dato di fondo: le lunghe parentesi prive di qualsiasi informazione o documentazione attendibile.

La storia del Castello di Rocca Sinibalda è sfuggente quanto la sua identità. Il Castello attende chi la voglia riscrivere pazientemente, liberandola dagli errori, invenzioni e inesattezze che la circondano e girano anche in siti e testi ‘seri’.  La bellezza del Castello lo merita.

Restauro

Un impegnativo progetto durato 7 anni.

La direzione artistica è stata curata dall’Arch. Claudio Silvestrin e dal suo Studio, scelti dopo una selezione che ha coinvolto nomi prestigiosi come Gae Aulenti, Michele De Lucchi e altri di eguale peso.

Il castello è vincolato. I lavori sono stati seguiti e supervisionati dall’arch. Caterina Nucci per la Sovrintendenza ai Beni Architettonici e Paesaggistici, e dai dott. Dora Catalano e Benvenuto Pietrucci, per la Sovrintendenza ai Beni Artistici. All’arch. Nucci è toccato il compito più complesso, svolto con appassionata partecipazione e con continue visite in cantiere.

La GPL Costruzioni ha eseguito le impegnative lavorazioni generali. Le restauratrici Silvia Balena (Restaura sas) e Alessandra Morelli hanno curato la pulizia e il recupero degli affreschi e dei soffitti lignei. La signora Morelli ha gestito la ricerca coloristica e l’intervento sulle malte delle pareti esterne (Corte grande, cinta muraria). Il sig. Cisbani e la ditta Petres hanno salvato marmi impossibili.

L’obiettivo era: un restauro approfondito ma invisibile. Il commento più appropriato è venuto dall’Arch. Silvestrin: “sembra che non sia stato fatto nulla”.

Problemi e scoperte

Il restauro si è scontrato con problemi di ogni genere, alcuni prevedibili, altri no.

Il più grave: la collocazione impervia. La gru di 30 metri è stata portata in elicottero e montata in loco. Le strade strette intorno al castello erano impraticabili per mezzi anche medio-piccoli. La costruzione dei ponteggi su spuntoni di roccia a picco e con mura non verticali ha messo a dura prova i tecnici.

Difficile poi trovare sabbia della zona coerente con i materiali usati nei secoli scorsi per la malta delle mura. Ancora più difficile recuperare senza costi stratosferici quanto già esisteva: gradini di marmo plurisecolari, portelloni e porte massicce, mattoni belli perché consumati.

I problemi più gravi sono venuti dalla mediocrità e dalla povertà culturale e di risorse degli interventi precedenti. La Corte grande con un improbabile e volgare acciottolato. Il cemento, spesso il cemento grigio!, usato con generosa stupidità e quasi impossibile da rimuovere. Gli spuntoni di ferro piantati negli affreschi. L’abbondante uso di verniciature sui pavimenti di legno e sui mattoni. Le sostituzioni delle parti danneggiate dei soffitti lignei con materiali d’accatto. Ovunque le infiltrazioni mai tamponate, che hanno degradato ampie superfici affrescate, richiedendo un lavoro delicato di ripristino parziale. Sugli affreschi, restauri goffi in assoluto, e effettuati spesso con vernici acriliche! E quanto altro ancora, che spiega i 7 anni di lavori!

Per fortuna anche le scoperte.

Ad es. una neviera profonda 7 metri, riempita in passato di detriti di ogni genere, e ignorata in tutti i rilievi: svuotata, mostra ora in che modo, centinaia di anni fa, i castellani si garantivano neve e ghiaccio per i mesi estivi.

Una vasca-piscina, piccola ma in posizione stupenda, usata negli anni ’60 dalla Peggy Guggenheim,  da Gregory Corso e da altri poeti della Beat Generation, dal Living Theater. Poi riempita di terra e di qualche arbusto insensato.  Ora tornata ad essere ciò che appariva nelle foto di allora, ritrovate.

Il mini-anfiteatro alla fine della cosiddette Cantine, perfetto spazio micro-scenico di grande bellezza.

Gli spuntoni di roccia sui quali è costruito il Castello, liberati da tutto ciò che chissà perché  voleva nasconderli.

Le grandi pareti murarie con le forme potenti e geometriche occultate dall’edera, finalmente eliminata.

E tanto altro ancora.